In Italia c’è sempre stato un conflitto di classe dalla notte dei tempi. Ma nella classica “guerra” tra poveri, in quella tra poveri e ricchi, tra destra e sinistra e le tante altre si frappone un nuovo scontro, quello tra il “partito del petrolio” e quello dell’ambiente. Secondo coloro che portano il vessillo dell’oro nero, trivellare in Italia è un business inevitabile. Perché comprare petrolio dall’estero se ce l’abbiamo sotto il nostro stesso terreno, si chiedono. E soprattutto, perché in un momento di crisi non si può puntare su un settore che crea migliaia di posti di lavoro?
Peccato che però, andando ad indagare, non sembra così tutto rose e fiori. Da una parte abbiamo gli imprenditori del petrolio (guai a chiamarli “petrolieri”), che sostengono una possibile convivenza tra ambiente e trivelle, con spiagge che non verrebbero deturpate da questi enormi macchinari in lontananza, e la gente che si fa il bagno tranquillamente come se davanti a sé ci fosse solo l’orizzonte, e dall’altra l’Europa che considera le acque italiane tra le più sporche del Continente.
Da una parte c’è chi sostiene la creazione di migliaia di posti di lavoro tra le operazioni di estrazione e l’indotto, e chi, come Antonio Pepe, segretario regionale della Cgil della Basilicata, afferma che nonostante la Regione lucana sia una delle più ricche di petrolio, in realtà i posti creati sono solo 500, a fronte dei duemila pubblicizzati, e quasi tutti precari, con soltanto una settantina di lavoratori a tempo indeterminato.
Alla fine chi ci guadagna sono sempre e solo i comuni, che ricevono royalties milionarie, svendendo il proprio territorio. Ma se il disastro del Golfo del Messico dovesse accadere anche da noi? Speriamo ciò non avvenga, ma nulla si può escludere. La tragedia della Bp è avvenuta a 1.500 metri di profondità. In Italia si scava anche fino a 6.000 metri, e se già in America non si riesce a trovare il modo per bloccare le perdite dalla falla, figuriamoci cosa sarà possibile fare a tali profondità.
Per questo motivo i presidenti di Regione e gli amministratori locali tentano in tutti i modi di opporsi, come Nichi Vendola che sta portando avanti da tempo una battaglia contro la trivellazione al largo delle isole Tremiti, uno dei posti più incontaminati della Puglia, ma anche di tutt’Italia, o Anna Rita Bramerini, assessore regionale all’Ambiente della Toscana, che vuol evitare che si trivelli addirittura in zone protette come le aree tra Montecristo e Pianosa, tra le più ricche di biodiversità e sicuramente zone uniche al mondo, ma che potrebbero essere distrutte dall’arrivo delle petroliere.
Il problema è che la legge consente al Governo di avere carta bianca sul mare, e così se sulla terraferma le Regioni possono anche opporsi, le trivellazioni in acqua sono di competenza nazionale. Ed indovinate un po’ quando c’è stato il picco di autorizzazioni alla trivellazione? Se avete risposto da quando è tornato Berlusconi al Governo, avete azzeccato, anche se la risposta non era poi così difficile. Il Governo Prodi aveva frenato sul petrolio, puntando molto di più sulle rinnovabili. Dal 2008 invece le autorizzazioni hanno ripreso a piovere, e così in soli due anni ne sono state già date 95, di cui 71 a terra e 24 in mare, per un totale di circa 700 pozzi attivi. E siccome le potenzialità stimate dell’Italia in quanto a petrolio sono ancora enormi, molto più alte rispetto alla quantità che si può estrarre oggi, sembra che l’uscita da questo tunnel sia ancora molto lontana dall’essere raggiunta.
Fonte: [Repubblica]
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