Giorni fa parlavamo di una razza di pecora che si stava evolvendo a causa dei cambiamenti climatici. Ma non dobbiamo dimenticarci che ci sono migliaia di specie che per colpa di questi mutamenti rischiano di sparire. Se fosse per Jessica Hellmann, biologa presso l’Università di Notre Dame, gli insetti come farfalle e coleotteri che esercitano la stessa forza di conservazione animale, potrebbero diventare le icone tradizionali dell’estinzione dei giorni nostri, come accade ad esempio con gli orsi polari.
Gli insetti infatti sono alla base degli ecosistemi, ed anzi, forse hanno un ruolo ancora più importante di quello degli orsi polari. Quasi l’80% delle piante di tutto il mondo necessitano dell’impollinazione, e il valore annuale del lavoro degli insetti nelle colture nei soli Stati Uniti è stato calcolato in circa 20 miliardi di dollari. Peccato però che essi siano particolarmente sensibili ai cambiamenti climatici, in quanto non possono regolare la temperatura del loro corpo.
Le ricerche condotte da Hellmann e Shannon Pelini, una sua dottoranda, indicano che il riscaldamento globale può influenzare tutte le varie fasi della vita di un insetto, ma può anche colpirlo in modi diversi. Possono ad esempio veder modificato il loro habitat in modo che non sia più abitabile.
Una ricerca che verrà pubblicata sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), indica come le popolazioni di due specie di farfalle che vivono ai margini dell’estinzione siano interessate dai cambiamenti climatici e dai vari fattori che possono limitare o ridurre la loro espansione verso nord, alla ricerca di climi più freschi.
La tesi della Hellmann è che, nonostante da molte parti del mondo scientifico si proponga la migrazione assistita, un sistema secondo il quale l’uomo trasporti volontariamente alcune specie animali in ambienti più adatti alla loro sopravvivenza, rimane una questione piuttosto controversa.
In alcune circostanze, potrebbe essere gestita selvaggiamente per tentare di salvare una specie in estinzione. Ma in altre circostanze, il trasferimento delle specie può sovrappopolare i nuovi habitat, causare estinzioni di specie locali o intasare le riserve naturali. Tali rischi portano spesso a respingere l’idea della delocalizzazione
spiega Hellmann. La soluzione migliore è ridurre i gas ad effetto serra. Questo è il motivo per cui un gruppo di lavoro co-diretto dalla Hellmann ha recentemente sviluppato un nuovo strumento di analisi per aiutare gli scienziati a determinare se, quando e come trasferire una particolare specie di piante, di animali o insetti in un altro habitat.
Queste considerazioni includono la possibilità di successo del trasferimento, il suo potenziale di provocare danni ecologici, regolazioni rilevanti e l’importanza culturale dell’impatto della specie. Bisogna in breve evitare di rendere la nuova specie “invasiva“, cioè evitare che danneggi le specie già presenti sul posto.
Fonte: [Livescience]