A Fukushima la situazione, a quattro mesi dal terremoto e dallo tsunami, resta drammatica ed a dir poco critica. Il silenzio mediatico calato sull’incidente nucleare più grave avvenuto ai danni di una centrale atomica dopo Chernobyl non equivale purtroppo ad un superamento della crisi. Saranno necessari decenni prima che si arrivi al decommissionamento dell’impianto. Le cittadine intorno sono deserte, abbandonate in tutta fretta, lasciando la vita in sospeso, un cane ad aspettare un padrone che non tornerà, giocattoli preferiti radioattivi che non faranno più il sonno sereno di un bambino.
L’evacuazione per km intorno all’area, lontano da terreni, acque, aria, coltivazioni, case ed animali contaminati, ha salvato (almeno per ora) gli abitanti dall’esposizione a tassi di radiazioni elevati ma che succede a chi lavora nella centrale per cercare di ripristinare i livelli di sicurezza? La Reuters, tempo fa, raccolse la testimonianza di un dipendente a progetto che parlava di operai usa e getta stranieri fatti venire per aggirare le norme giapponesi troppo restrittive sulla sicurezza sul lavoro, assunti per risolvere situazioni critiche nelle centrali della Tepco.
Oggi parliamo di un caso completamente diverso ma che fa capire quanto una multinazionale possa essere infinitamente disumana ed appellarsi a cavilli di fronte alla morte di chi sta lottando per salvarle la faccia, mettendo a rischio la sua stessa vita. Nobukatsu Osumi ha sessant’anni quando muore d’infarto mentre si trova a lavoro, il 14 maggio scorso, nella centrale di Fukushima. Ci sono volute ben due ore per portarlo in ospedale! L’uomo faceva l’idraulico ed era originario di Omaezaki. Era stato inviato a Fukushima da un’azienda che collaborava con la Tokyo Electric Power per la risoluzione dell’emergenza.
La vedova non ha ottenuto il riconoscimento per la morte sul lavoro né alcun risarcimento sia da parte della Tepco che dalla compagnia assicurativa. L’infarto non è stato associato all’esposizione alle radiazioni, che per l’uomo tra l’altro pare essere stata minima. L’avvocato della donna non contesta tanto questo quanto piuttosto il trattamento freddo ricevuto dalla compagnia, un’azienda per la quale l’uomo stava lavorando al momento della morte, anche se non assunto direttamente.
Noboru Yanagisawa, docente di diritto del lavoro alla Yamaguchi University, spiega che la famiglia dell’uomo andrebbe risarcita perché non si può mai determinare con assoluta certezza che il decesso non sia stato influenzato dalle condizioni lavorative e che non ci siano stati dei ritardi nei soccorsi. Dalla morte di Osumi, la Tepco ha asssunto un medico a disposizione degli operai, ma non si sente in dovere di risarcire la vita dell’uomo. Un rifiuto che per la vedova del tecnico è inaccettabile, al punto che la donna annuncia battaglia per vedere riconosciuta la morte del marito come un incidente sul lavoro.
[Fonti: The Mainichi Daily News; Ilsole24ore]
[Foto 2: The Mainichi Daily News]