Un team di scienziati dell’INGV, l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, si è appena reso protagonista della scoperta di nuovo batterio magnetotattico, battezzato “Magnetobrivio blakemorei”. Il merito della scoperta va al lavoro combinato degli studiosi dell’INGV, dell’Istituto Oceanografico dell’Università di San Paolo, dell’Università di Nevada e dell’Università di Rio de Janeiro. Il batterio scoperto potrebbe risultare di notevole interesse per la medicina.
Il batterio magnetotattico ora denominato “Magnetobrivio blakemorei” è stato identificato nel Massachussetts, vicino la foce del fiume Neponset. Dopo una prima fase di analisi nei laboratori dell’Istituto di Microbiologia dell’Università di Rio de Janeiro la coltura è stata poi trasferita in Italia, entro strutture dell’INGV, e più precisamente nel laboratorio di paleomagnetismo, per analisi avanzate delle caratteristiche magnetiche del batterio, eseguite con strumentazione d’avanguardia. Il “Magnetobrivio blakemorei” durante le analisi ha rivelato una struttura di magnetite pura a catena di cristalli, ognuno dei quali di dimensioni non indifferenti.
La ricerca sta destando, come ovvio, interessa nella comunità internazionale ed è in fase di pubblicazione su Environmental Microbiology. Ma cosa sono, più in generale, i batteri magnetotattici? E perché hanno grande potenziale nelle applicazioni mediche più avanzate?
I batteri magnetotattici sono una classe scoperta negli anni 60, caratterizzati dall’attitudine a disporsi lungo le linee del campo magnetico della Terra (il primo articolo su questi batteri fu peraltro scritto da un italiano, Salvatore Bellini, nel ’63). I batteri magnetotattici si trovano in genere in aree dove sia presente transizione acqua-sedimenti, e si possono dividere, tra l’altro, per la produzione di grigite o magnetite. Quest’ultima, propria anche del Magnetobrivio blakemorei, ha un momento magnetico tre volte maggiore della grigite. La differente inclinazione del campo magnetico terrestre determina, inoltre, una differente polarità delle cellule magnetotattiche dei batteri a seconda dell’emisfero entro cui si trovano.
Le particelle magnetiche proprie di questi batteri ne permettono l’utilizzo entro vari campi. Negli ultimi anni le applicazioni hanno conosciuto un’impennata soprattutto per ciò che concerne medicina e biotecnologie, in quanto presentano svariati vantaggi se confrontate alle particelle magnetiche artificiali. In particolare esse si prestano in modo efficace come carrier di proteine ricombinanti e àncora, risultando estremamente utili nella ricerca e nella diagnostica, svolgendo anche il ruolo di biosensori. Le applicazioni in vivo sono sia terapeutiche che diagnostiche, mentre quelle in vitro prettamente diagnostiche. Al momento sono molto sfruttate nella ricerca contro i tumori, per la possibilità di elevare la temperatura delle zone colpite, ma le particelle magnetiche possono essere sfruttate anche per il trasporto di farmaci, radionuclei e anticorpi. Onore quindi al lavoro svolto dagli scienziati dell’INGV (e degli altri istituti esteri), per una scoperta che ci ricorda perché la “distruzione della natura”, in futuro, non potrà che indebolire gravemente la scienza e la medicina.