La presenza di plastica in mare sotto forma di rifiuti di dimensioni sempre più contenute facilita la risalita di questa sostanza nella catena alimentare fino all'uomo. Ne parla uno studio di Greenpeace.
Pur essendo un materiale ampiamente riciclabile e riutilizzabile, ancora oggi una parte significativa della plastica prodotta annualmente viene dispersa nell’ambiente sotto forma di rifiuti o scarti di produzione. I mari finiscono spesso per essere grani collettori di queste sostanze plastiche la cui presenza nella acque è ritenuta in crescita da molti anni. La presenza di plastica in mare, specie sotto forma di piccole particelle, fa si che questa sostanza possa facilmente entrare nella catena alimentare fino ad arrivare a prodotti che quotidianamente arrivano sulle nostre tavole. Di questo complesso ed ancora poco noto tema si occupa un recente rapporto di Greenpeace.
Plastica in mare ed alimentazione
Intitolato “La plastica nel piatto, dal pesce ai frutti di mare“, il rapporto dei laboratori di ricerca di Greenpeace ha raccolto i risultati di una serie di studi sugli effetti della plastica in mare nella catena alimentare.
L’organizzazione ambientalista osserva anzitutto come la produzione annua di plastica sia in sostenuto aumento tanto da essere passata dai 204 milioni di tonnellate del 2003 ai 299 milioni di tonnellate del 2013. Quasi il 40% di tale produzione è utilizzata per la realizzazione di imballaggi o prodotti monouso destinati quindi ad esaurire rapidamente la propria funzione e trasformarsi in rifiuti. La plastica come detto è un materiale facilmente riciclabile ma nonostante questo una parte consistente dei rifiuti in plastica sfugge al percorso della raccolta differenziata e finisce nell’ambiente. Inevitabilmente una parte di questo materiale finisce per raggiungere il mare che a sua volta spesso si ritrova a accogliere anche i rifiuti abbandonati sulle spiagge.
Non è facile, spiega il rapporto di Greenpeace, stimare la consistenza dalla plastica in mare anche se modelli teorici stimano tra cinquemila e cinquantamila miliardi il numero di frammenti di materiale plastico disperso nei mari. Altri modelli arrivano a calcolare che fino al 60-80% dei rifiuti presenti in mare sia costituito da plastica.
Microplastica
I grandi frammenti di plastica sono probabilmente l’aspetto più vistoso e noto del problema della plastica in mare. Allo stesso tempo però non sono l’elemento più preoccupante da valutare, almeno nell’ottica della relazione con la catena alimentare. Le così dette ‘macroplastiche’ (frammenti di dimensione maggiore di 25 mm) e le ‘mesoplastiche’ (frammenti tra 5 e 25 mm) sono facilmente osservabili come rifiuti e spesso si trovano negli stomaci di uccelli e mammiferi marini.
A destare ben più alta preoccupazione, sottolinea Greenpeace, sono però le così dette microplastiche. Non esiste una definizione formale esaustiva di ‘microplastica’ ma in generale vengono catalogati in questa categoria i frammenti di materiale plastico con diametro inferiore ai 5 mm ed i filamenti di lunghezza sempre inferiore ai 5 mm.
Le microplastiche sono quindi particelle di dimensione estremamente contenuta che proprio per le loro misure possono più facilmente essere ingerite dagli organismi che vivono in mare entrando in questo modo nella catena alimentare.
Rispetto alle particelle più grandi inoltre le microplastiche presentano un più alto rapporto tra superficie e volume. Ne deriva che a parità di peso le microplastiche possono assorbire una maggiore quantità sostanze contaminanti diventando un potenziale vettore di trasporto verso la catena alimentare e la stessa alimentazione umana.
Le particelle di microplastica possono avere sostanzialmente due origini. Da un lato particelle di dimensione sempre più contenute possono generarsi per disgregazione di elementi di dimensione superiore sotto l’azione meccanica del vento e del moto ondoso o per effetto della radiazione ultravioletta. Esistono poi particelle di microplastica prodotte in questa forma già a livello industriale per essere destinate ad usi specifici.
Studi sulla plastica in mare
Mentre le macroplastiche tendono in una certa misura a comportarsi come sostanze inerti, le microplastiche sembrano mostrare maggiori effetti sugli organismi che le ingeriscono. Il rapporto di Greenpeace ha in questo senso raccolto una serie di lavori scientifici che hanno affrontato il problema da diversi prospettive ed in diverse zone del mondo.
Da questa documentazione emerge tra l’altro come siano almeno 170 gli organismi marini tra vertebrati ed invertebrati che ingeriscono frammenti di microplastica. Uno degli studi proposti riguarda da vicino anche i mari italiani dal momento che ha preso in considerazione 121 esemplari di pesci del Mediterraneo centrale. I risultati in questo senso stati abbastanza preoccupanti dal momento che nel 18,2% del campione analizzato è stata rilevata la presenza di particelle di microplastica.
Risultati simili si sono registrati anche in uno studio eseguito in Portogallo su un campione di 263 pesci appartenenti a 26 specie differenti. Anche in questo caso nel 19,8% del campione è stata rilevata la presenza di microplastiche.
Tra i numerosi altri dati citati da Greenpeace sono da sottolineare anche quelli relativi alla presenza di microplastiche nei molluschi in particolare nelle cozze e nelle ostriche.
Effetti sulla catena alimentare
La presenza di microplastica negli organismi marini tende a propagarsi lungo la catena alimentare fino ad arrivare a specie comunemente utilizzate nell’alimentazione umana. Lungo questo percorso la quantità di residui plastici può notevolmente accumularsi anche per effetto della tendenza di queste sostanze a permanere per molti giorni negli organismi.
Greenpeace osserva che l’ingestione di microplastiche genera negli organismi marini sia effetti fisici (come ad esempio lesioni negli organi interni) che chimici sotto forma di cessione ed accumulo di sostanza pericolose.
In assenza di studi approfonditi sugli effetti delle microplastiche nell’alimentazione umana, Greenpeace propone a Governo e Parlamento l’adozione di una legge che in forza ad un principio di precauzione metta al bando produzione ed uso delle microplastiche.
Photo | Thinkstock