L’Asian Pulp & Paper (APP), colosso della carta sino-asiatico appartenente al gruppo Sinar Mas, per troppa avidità smentisce sé stesso. Accettando di non convertire in arboricoltura da carta alcuni ettari di bosco in Sumatra intasca un lauto pagamento per le quote carbonio risparmiate. Facendo ciò ammette pubblicamente, e addirittura quantifica, il danno ambientale che la conversione della foresta pluviale primaria in boschi monospecifici di acacie produce, conversione che l’azienda porta avanti da anni dichiarandola una pratica a impatto ambientale quasi nullo.
Lo scorso luglio una lettera sottoscritta da 40 associazioni ambientaliste e rimbalzata poi nella rete da Wwf, Terra! e Greenpeace, richiedeva alle industrie della carta di non acquistare più dall’Asian Pulp & Paper. Tempo dopo Burger king, Kraft, Nestlè ed altre aziende hanno rescisso pubblicamente gli accordi per le forniture di olio di palma dal gruppo Sinar Mas a causa delle
“fondate preoccupazioni su alcune delle pratiche di sostenibilità nella produzione di olio di palma e sul loro impatto sulla foresta pluviale”.
L’APP da anni sostituisce alla foresta pluviale primaria del Sumatra, scrigno ricchissimo di biodiversità dalle migliaia di nicchie ecologiche e relazioni tra specie, le piantagioni monospecifiche di acacia dalla struttura estremamente semplificata e dal legname tenero che meglio si prestano ad essere trattate a taglio raso e lavorate dall’industria della carta.
L’APP sostiene dal 2007 che le sue piantagioni di acacia sono in grado di catturare la CO2 con efficienza quasi simile a quella della foresta primaria che vanno distruggendo, vantando l’impronta ambientale più bassa tra tutte le industrie della carta. Nel maggio del 2008 conferma questo dato con una dichiarazione aperta e, nello scorso settembre, arriva addirittura a commissionare alla ITS Global (Global Strategies international Trade) una verifica “autonoma” e “indipendente” che ovviamente riconferma che l’attività agroindustriale dell’azienda ha impatto prossimo allo zero.
Dopo tutti gli sforzi profusi per negare le sue responsabilità circa le immissioni di CO2 ed il cambiamento climatico, forse per troppa avidità, l’APP si tradisce oggi annunciando di aver stipulato un accordo con la Carbon Conservation (CC), un broker del carbonio con sede a Singapore, col quale si impegna a non convertire in piantagioni di acacia 15.000 ettari di foresta primaria situata nella penisola di Kampur in Sumatra per i prossimi 33 anni.
In cambio del servizio di sequestro del carbonio svolto l’APP riceverà un ricco pagamento. E neppure ci si può consolare per la scongiurata immissione di CO2 nell’ambiente dovuto al rilascio dei 15.000 ettari di foresta primaria perché la Carbon Conservation rivenderà le quote CO2 “risparmiate” dall’APP a qualche altra azienda che dovrà risanare il suo bilancio di anidride carbonica.
Sergio Baffoni di Terra! ci ricorda che la logica conduce a due ovvie deduzioni alternative:
se davvero le piantagioni di acacia sono a impatto quasi zero, allora i soldi intascati dall’ Asian Pulp & Paper per il servizio di sequestro del carbonio sono “rubati” oppure, com’è più probabile che sia, se quei soldi rappresentano il giusto compenso per la quota di carbonio in più che la foresta vergine è in grado di sottrarre all’atmosfera rispetto alle piantagioni di acacia l’APP sta ammettendo implicitamente di essere uno dei principali responsabili del cambiamento climatico.
Il gigante della carta è responsabile della conversione di 1 milione di ettari di preziosa foresta pluviale primaria, in arboricolture da carta, diminuendo l’efficienza nella cattura di carbonio di circa 300 tonnellate per ogni ettaro convertito, senza contare i danni, difficilmente quantificabili, arrecati al pianeta in termini di distruzione di quei templi della biodiversità che sono gli strati del canapy delle foreste vergini. L’orco della carta è responsabile della devastazione della foresta di Sumatra, e con essa dello sconvolgimento delle microeconomie dei popoli indigeni, della scomparsa di una quantità di habitat tra cui quelli dell’orango, della tigre e dell’elefante che sono solo tre delle migliaia di specie minacciate o già estinte per produrre packaging ovvero rifiuti.
[Fonte: Salvaleforeste.it]
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