I colloqui sul delicato equilibrio climatico globale di Cancun hanno subìto una grave battuta d’arresto la scorsa notte quando il Giappone ha categoricamente espresso la sua contrarietà alla proroga del protocollo di Kyoto, il trattato internazionale vincolante che impegna la maggior parte dei Paesi più ricchi del mondo a tagliare le emissioni.
In base agli accordi, il Giappone doveva tagliare le emissioni di una media del 5%, rispetto al 1990 entro il 2012. Jun Arima, rappresentante del governo nipponico per l’economia e l’industria, ha ammesso che il suo Paese è tra i maggiori emettitori di gas serra, ma nonostante questo non può ulteriormente tagliare le proprie emissioni.
Il Giappone non sottoscrive il proprio obiettivo nel quadro del protocollo di Kyoto in qualsiasi altra condizione e in qualsiasi circostanza.
La dichiarazione è molto pericolosa in quanto, dopo l’opposizione iniziale degli Stati Uniti, se anche uno dei precursori dell’accordo si dovesse tirare indietro, questo potrebbe provocare una fuga di alcuni Paesi in via di sviluppo che già minacciano una rottura dei colloqui. Apparentemente Il Giappone non ha dato buoni motivi per questo inasprimento della sua linea di condotta, ma la realtà, secondo un funzionario che vuol rimanere anonimo, pare sia che il Governo del Paese asiatico non ritenga giusto che il protocollo possa essere prolungato alle attuali condizioni.
Il Giappone, in tarda serata, ha voluto chiarire la sua posizione, affermando che non rifiuterebbe un nuovo accordo giuridicamente vincolante in generale, ma non vuol essere penalizzato se, una volta firmato il taglio delle emissioni, altri Paesi come l’India e la Cina non ratificassero tagli simili. I Paesi Occidentali che hanno ratificato il primo protocollo, al contrario, ci sono andati più cauti e si sono detti disposti ad accettare un secondo trattato, a condizione che anche altri Paesi lo facciano.
E’un pessimo inizio per i negoziati. Il pericolo è che altri Paesi potrebbero voler seguire l’esempio del Giappone e fuggire dagli impegni vincolanti per tagliare le emissioni
ha dichiarato Poul Erik Laurisden, portavoce dell’agenzia Care International. Ma nella giornata di ieri non si è parlato solo di questo. L’altro tema al centro del dibattito è stata la deforestazione. La speranza è di trovare un accordo con cui stabilire un progetto globale per evitare la distruzione dei polmoni verdi del pianeta. Due aspetti, uno positivo e l’altro negativo, sono scaturiti dai colloqui.
Quello positivo è che circa il 70% delle foreste messicane sono di proprietà collettiva delle comunità e su queste si basano le micro-economie dell’area. Di conseguenza queste foreste vengono tutelate, e dunque sono in grado di bloccare il carbonio nelle piante e nel suolo.
Il Messico è l’avanguardia di una tendenza generale verso una gestione forestale comunitaria che non riceve abbastanza attenzione
ha affermato Deborah Barry dell’iniziativa americana Diritti e Risorse, che sostiene alcune delle ONG messicane che lavorano con le comunità. La proposta, basata sull’esempio messicano, è di spostare i finanziamenti che normalmente vanno alle miniere, alla ricerca del petrolio e ad altre industrie inquinanti, dirottandoli verso la tutela delle foreste. La soluzione, secondo la Barry, è di affidare pezzi di terra alla gente che con essa ci vive:
Se una comunità si sostiene grazie ad una foresta, se ne prenderà cura molto meglio di chiunque altro.
L’aspetto negativo è uno che purtroppo noi italiani conosciamo molto bene: le promesse mancate della politica. Quando Felipe Calderon si insediò nel dicembre 2006, promise di essere il presidente più verde della storia del Messico. Per potersi autoproclamare in questo modo, decise di piantare un sacco di alberi, a cominciare da un pino, piantato con le proprie mani nude. Questa dimostrazione ispirò lo United Nations Environment Programme, un programma per lo sviluppo di aree verdi in tutto il mondo.
Purtroppo una parte delle promesse non sono state mantenute, mentre gli alberi piantati non hanno ottenuto la giusta cura perché non c’erano fondi per gli operatori che dovevano occuparsene. La conseguenza è che il 90% degli alberi piantati sono morti ed il programma di rimboschimento massiccio è caduto. Di certo non un buon biglietto da visita per avviare i colloqui sulla riforestazione del mondo.
Infine si è parlato anche del problema, che verrà affrontato in modo più esteso nei prossimi giorni, delle conseguenze dei cambiamenti climatici, ed una di queste è il rincaro dei prezzi del cibo. In un mondo in cui quasi un miliardo di persone vivono al di sotto della soglia di povertà, i cambiamenti climatici potrebbero far alzare i prezzi del cibo del 130% entro il 2050. Il problema è che anche senza i mutamenti climatici, i prezzi potrebbero lievitare ugualmente, anche se in misura di gran lunga inferiore, intorno al 34% circa. Una eventualità a cui i grandi della Terra devono dedicare maggiore spazio.
[Fonte: The Guardian]
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