Da qualche anno è stato coniato un neologismo di cui sentiremo sempre più parlare in futuro: ecomafia. In questo termine rientravano tutti i reati ambientali messi a segno da organizzazioni malavitose, a prescindere da quelle oggi conosciute con altri nomi, che speculavano sullo sfruttamento ambientale per arricchirsi. Fino ad oggi il termine era stato usato solo da Legambiente e qualche altra associazione ambientalista, ma ora per la prima volta entra in un aula di tribunale.
A Napoli il Pubblico Ministero Maria Cristina Ribera ha avviato una requisitoria basata proprio sul concetto di ecomafia. A dir la verità l’inchiesta è partita nel 2006 ma solo ieri è arrivata la richiesta di condanna: 232 anni di carcere complessivamente per i 26 indagati per il reato di associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti e al disastro ambientale.
Il disastro ambientale, secondo il PM, è ancora in corso, e si manifesta con la produzione di rifiuti tossici in Toscana ed in Veneto, che vengono poi sversati ad Acerra con l’ovvia complicità della camorra. In parte la colpa di tutto ciò è anche dello Stato, ha spiegato un collaboratore di giustizia. Secondo quanto raccontato, le aziende avevano cominciato a scaricare nelle campagne, ma siccome lo Stato non aveva bonificato nemmeno un ettaro di terreno, per evitare che i propri prodotti andassero buttati, i contadini si affidavano volontariamente alla camorra che falsificava documenti e permetteva loro di vendere i prodotti avvelenati, continuando impunemente a scaricare immondizia.
Se effettivamente dovesse essere riconosciuta la colpevolezza degli imputati, si tratterebbe del primo processo in Italia basato ufficialmente sul fenomeno dell’Ecomafia, una vittoria per associazioni ambientaliste e normali cittadini stanchi di vedere avvelenato il proprio territorio, ma spesso lasciati soli. Il prossimo appuntamento con le udienze è per fine gennaio, per poi giungere ad una sentenza di primo grado presumibilmente entro febbraio.
[Fonte: il Fatto Quotidiano]
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