Da qualche mese è scoppiato il caso Ilva. Un caso che, a dirla tutta, lo è diventato da poco solo a livello nazionale perché i pugliesi, ed in particolare i tarantini, sanno da trent’anni che l’Ilva da un lato li finanzia con lo stipendio, ma dall’altro li ammazza con le emissioni. Ma proprio come l’acciaieria tarantina, in tutto il Paese ci sono altre 57 realtà simili che impiegano circa 6 milioni di persone. Per una questione di par condicio, dovrebbero essere chiuse tutte, distruggendo così l’economia nazionale. Ma come si è arrivati a tutto questo?
L’inchiesta porta il marchio del quotidiano La Repubblica, e racconta di molte realtà molto simili a quella tarantina. Esistono infatti altre città d’Italia come Porto Marghera, Bagnoli, Gela, Porto Torres, giusto per citarne alcune, che dipendono letteralmente da attività inquinanti. Attività che, se si facessero le cose per bene, potrebbero continuare a lavorare senza emettere sostanze che uccidono la popolazione. Ma siamo in Italia, e le cose per bene non si fanno quasi mai.
Secondo i calcoli del quotidiano, ci vorrebbero almeno 30 miliardi di euro per bonificare tutte le aree a rischio d’Italia, ma nel bilancio del Ministero dell’Ambiente ci sono appena 164 milioni. A creare i maggiori disagi sono i siti minerari, ma anche le fabbriche e soprattutto i poli petrolchimici. Nei 7 anni rilevati dallo studio realizzato dall’Iss in collaborazione con diversi istituti universitari e con l’Oms, i poli italici sono stati ritenuti responsabili di 643 decessi per tumore polmonare e 135 morti per malattie respiratorie. Ma lo stesso dicasi per le aziende chimiche, responsabili di quasi duecento decessi per cancro al fegato, per non parlare dell’amianto su cui in passato si è fatto tanto, ma che oggi è ancora presente in molte Regioni.
Le bonifiche costano, 30 miliardi sono troppi, e così come sempre accade in Italia, si perde tempo dietro il secondo sport nazionale: lo scarica barile. Lo Stato dà la colpa ai privati, i privati allo Stato, e così alla fine nessuno paga mai. Anzi, qualcuno c’è, i lavoratori, con la propria vita.
[Fonte: Repubblica]
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